IL TERZO INCONTRO DEL CAMMINO DI QUARESIMA CON D.RUARO

Lo scorso giovedì 1 marzo si è tenuto nell’oratorio di Passo di Riva, il terzo incontro del cammino quaresimale, guidato da d. Ruaro.

FORMAZIONE DEL TRIDUO – GIOVEDI’ SANTO

Come è andato formandosi il triduo?

Collegandoci con quanto detto nell’incontro precedente, i cristiani prendono una domenica e la ‘vestono a festa’, la solennizzano per ricordare la Pasqua. Con quale criterio hanno fatto questo?

 Gesù era stato messo in croce alla vigilia della Pasqua ebraica, cioè della veglia in onore del Signore prescritta da Mosè al popolo dell’antica alleanza per ricordare l’uscita dall’Egitto. In concomitanza con la celebrazione della Pasqua giudaica i cristiani hanno fissato la nuova Pasqua. Alcuni l’hanno celebrata lo stesso giorno, indipendentemente dal giorno della settimana in cui cadeva.  Roma (e successivamente tutte le altre chiese) ha preferito mantenere il legame con la domenica, per cui la Pasqua cristiana è stata celebrata la domenica successiva alla Pasqua giudaica.  All’inizio si celebrava tutto nella notte tra il sabato e la domenica. Pian piano l’unica celebrazione è stata amplificata nei tre giorni di venerdì, sabato e domenica, interpretati come memoria rispettivamente della morte, sepoltura e risurrezione di Cristo.

Il triduo inizia con la messa vespertina nella Cena del Signore, ha il suo culmine nella veglia pasquale e si chiude con i vespri della domenica di risurrezione. Dunque la celebrazione della pasqua si presenta come una celebrazione che si compie in tre giorni (venerdì, sabato e domenica), preceduti, quasi come un solenne preludio, dalla messa vespertina del Giovedì santo.

Fino al secolo VII a Roma il Triduo pasquale iniziava con il Venerdì santo.

Ma, attraverso la testimonianza della pellegrina Egeria, veniamo a sapere che già verso la fine del secolo IV a Gerusalemme, alla sera del Giovedì santo si celebrava una messa tutta speciale alla «prima ora della notte», cioè alle 19.              

Questa celebrazione aveva luogo nella chiesa del Martyrium, dietro la croce, cioè proprio nel luogo della crocifissione, ed Egeria sottolinea che «tutti partecipano alla comunione» (Diario, 35,2). Questa particolare celebrazione nel ricordo dell’ultima cena del Signore intende fare memoria di ciò che fece Gesù prima di affrontare la sua passione e morte: nel contesto di una cena pasquale fece del pane e del vino i segni perenni e reali del suo corpo donato e del suo sangue versato. In altre parole, anticipò nei segni, istituendo il sacramento dell’Eucaristia, ciò che avrebbe compiuto attraverso la sua morte e risurrezione.

Anche oggi la messa vespertina del Giovedì santo si pone come prologo, preludio, cioè annuncio globale e sacramentale di ciò che sarà celebrato separatamente nei tre giorni successivi.

D’altra parte, secondo il computo liturgico del tempo, lo spazio vespertino del giorno precedente appartiene già a quello seguente. Pertanto la celebrazione del giovedì sera appartiene già al venerdì di cui è annuncio sacramentale.

Del resto è sintomatico che questa messa, come abbiamo visto, a Gerusalemme non tosse celebrata nel cenacolo, ma sul Calvario. Se vogliamo, quindi, comprendere i tre “giorni santi” del Triduo dobbiamo celebrarli «in unità».

Il Triduo è un’unica grande celebrazione che va dalla messa «in coena Domini» del Giovedì santo alla Domenica «di Risurrezione»: una celebrazione in tre giorni. Non è possibile smembrare il «mistero pasquale» in una pluralità di eventi separati tra loro: la passione dalla morte, la morte dalla risurrezione…

Come la passione-morte di Gesù sono inscindibili dalla risurrezione, così il Venerdì santo è inscindibile dalla Domenica di Pasqua. È la liturgia stessa che ci invita a questa lettura/celebrazione unitaria del Triduo santo. E’ proprio la struttura di questi riti a dirci che si tratta di un’unica grande celebrazione.

Infatti troviamo il «saluto» di chi presiede solamente all’inizio della messa del giovedì santo sera e una sola benedizione e un solo «congedo» alla fine della Veglia pasquale.

Nella messa del giovedì non c’è congedo, ma l’assemblea «si scioglie in silenzio»; l’azione liturgica del venerdì inizia nel silenzio, senza riti di introduzione, e termina nel silenzio (senza benedizione e congedo); infine la Veglia pasquale inizia senza segno di croce e senza saluto; solo alla fine della Veglia troveremo la benedizione finale e il congedo. In questa inscindibile unità del Triduo pasquale è già contenuto il cuore di tutto il messaggio cristiano: la gloria passa attraverso la croce; la vita nasce dalla morte. In altri termini, è facendo della nostra vita un dono, un sacrificio per amore, che noi diamo a essa pienezza di senso e di gloria per l’eternità.

 

Il GIOVEDì SANTO 

1) LA MESSA CRISMALE

La celebrazione della Messa crismale, al mattino del Giovedì, nella Cattedrale, non appartiene ancora al Triduo pasquale. E’ una celebrazione che prepara la notte sacramentale per eccellenza, la Veglia pasquale.

Da quando ha preso forma il Triduo (VII secolo), il giovedì santo era l’ultimo giorno della quaresima fino a notte, e comprendeva tre messe: la prima al mattino per la riconciliazione dei pubblici penitenti, celebrata come evento ecclesiale dalla comunità riunita sotto il suo vescovo allo scopo di aprire l’accesso alla comunione pasquale anche ai cristiani più deboli ma pentiti; la seconda a mezzogiorno per la consacrazione degli olii santi e il crisma, che sarebbero serviti per la celebrazione dell’iniziazione dei catecumeni durante la veglia pasquale; la terza alla sera per commemorare l’Ultima Cena.

Scomparsa la tradizione della penitenza pubblica e caduta di conseguenza la messa corrispondente, il giovedì santo è oggi diviso in due parti distinte. La prima, con la benedizione degli olii e la messa del Crisma, termina prima dei vespri e conclude la quaresima. S’inizia allora il triduo pasquale con la messa della Cena del Signore. In realtà la messa del Crisma, salvo che in pochi testi (aggiunti recentemente), la celebrazione fa appena genericamente riferimento al mistero del giorno (il giovedì): per cui si potrebbe benissimo (alcune diocesi già lo fanno) spostare ad un giorno precedente.

La Messa del Crisma è presentata dalla rubrica del MR 1970 con queste parole: 

“Questa Messa, che il vescovo concelebra con il suo presbiterio e nella quale si benedicono gli Oli sacri, deve essere la manifestazione della comunione dei presbiteri con il loro vescovo. Conviene quindi che tutti i presbiteri, per quanto è possibile, vi partecipino e vi ricevano la comunione sotto le due specie.. .”

La deriva clericale di questa rubrica è accresciuta dall’inserimento nel corso della celebrazione della “Rinnovazione delle promesse sacerdotali”.

Notiamo però che il prefazio della messa fa una lettura più ampia quando dice, tra l’altro:

“Egli (Cristo) non soltanto comunica il sacerdozio regale a tutto il popolo dei redenti, ma con affetto di predilezione sceglie alcuni tra i fratelli e mediante l’imposizione delle mani li fa partecipi del suo ministero di salvezza” .

La Messa del Crisma dovrebbe quindi essere vista quasi come l’epifania della Chiesa, corpo di Cristo organicamente strutturato che nei vari ministeri e carismi esprime, per la grazia dello Spirito, i doni nuziali di Cristo alla sua sposa pellegrina nel mondo. Si tratta non solo della festa dei presbiteri, ma di tutto il popolo sacerdotale.

§§§

Approfittiamo dell’occasione per dedicare una parola su cosa significa “popolo sacerdotale”, o “sacerdozio comune dei fedeli”.

Nel rito del battesimo, la preghiera che precede la seconda unzione si dice:

«Dio stesso vi consacra con il crisma di salvezza, perché inseriti in Cristo, sacerdote, re e profeta, siate sempre membra del suo corpo per la vita eterna». 

Questa unzione, quindi, insieme con la confermazione, pone le basi per la partecipazione di tutti i battezzati al ministero della Chiesa.

Il Concilio Vaticano II, per introdurre il tema del «sacerdozio comune dei fedeli», afferma (citando Ap. 1,6) che «Cristo Signore, [… ] fece del nuovo popolo “un regno e sacerdoti per il Dio e Padre suo”» (LG 11).

Cosa significa condividere il sacerdozio di Cristo? Gesù non era un sacerdote alla maniera di quelli che stavano al Tempio: era un laico! Il suo sacerdozio consiste nell’essere mediatore tra Dio e l’umanità: ha incarnato l’amore di Dio per noi e il nostro amore per Dio. Il suo unico sacrificio è stato l’offerta di sé. Noi condividiamo il suo sacerdozio ogni volta che amiamo gli altri con l’amore stesso di Dio.

Tutti i battezzati sono chiamati ad essere profeti. Pietro a Pentecoste, citando il profeta Gioele, dice: «dice Dio: su tutti effonderò il mio Spirito; i vostri figli e le vostre figlie profeteranno…» (At 2,17). La profezia non è la predizione del futuro. I profeti annunciano la Parola di Dio, che anima e fa crescere le persone. La vocazione di ogni essere umano è quella di pronunciare parole feconde che nutrano le persone e le rendano forti. Abbiamo quindi tantissime occasioni ogni giorno per esercitare il nostro ministero profetico.

Infine Gesù fu un re insolito, che governò dalla croce; la sua regalità non fu «di questo mondo», e fu esercitata rifiutando la violenza. Noi condividiamo la sua regalità quando partecipiamo con spirito cristiano ai processi decisionali della nostra società e della Chiesa. A cominciare da come si amministra una famiglia, per arrivare a coloro che sono coinvolti in qualsiasi forma di governo, gli amministratori, gli economisti, i bancari… La stessa regalità dovrebbe vedersi anche all’interno della Chiesa, come scriveva Paolo VI, «spetta ai laici attraverso la loro libera iniziativa e senza attendere passivamente consegne o direttive, penetrare di spirito cristiano la mentalità e i costumi, le leggi e le strutture della loro comunità di vita» (Populorum progressio 81).

 

2) LA MESSA «IN COENA DOMINI

«Con la messa celebrata nelle ore vespertine del Giovedì santo, la Chiesa dà inizio al Triduo pasquale e ha cura di far memoria di quell’ultima cena in cui il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, amando sino alla fine i suoi che erano nel mondo, offrì a Dio Padre il suo corpo è sangue sotto le specie del pane e del vino e li diede agli apostoli in nutrimento e comandò loro e ai loro successori nel sacerdozio di farne l’offerta. Tutta l’attenzione dell’anima deve rivolgersi ai misteri che in questa messa soprattutto vengono ricordati: cioè l’istituzione dell’Eucaristia, l’istituzione dell’ordine sacerdotale e il comando del Signore sulla carità fraterna» (FP 44-45).

La celebrazione vespertina del Giovedì santo, nella sua struttura generale, in nulla si distingue dalle altre messe se non per alcune particolarità significative, importanti in quanto aiutano a rivelare l’autentica identità e finalità di questi riti.

1. Una sola messa vespertina

«Sul far della sera, nell’ora più opportuna, si celebra la messa in cena Domini con la partecipazione piena di tutta la comunità locale» (MR p. 135).

Questa messa è unica. Il motivo non è di ordine pratico, ma serve ad esprimere il significato profondo di ogni celebrazione eucaristica: è la manifestazione dell’unità di tutti i battezzati che vivono in uno stesso luogo. Questo significa che la messa non può mai essere una semplice devozione privata ma è lo strumento per eccellenza per fare comunione con i fratelli in Cristo, nella Chiesa.

2. Un tabernacolo vuoto

«Prima della celebrazione il tabernacolo deve essere vuoto. Le ostie per la comunione dei fedeli vengano consacrate nella stessa celebrazione della messa. Si consacri in questa messa pane in quantità sufficiente per oggi e per il giorno seguente» (FP 48).

La celebrazione inizia con il tabernacolo vuoto e aperto, così da mettere in evidenza che messa e comunione eucaristica sono intimamente unite.

La celebrazione eucaristica è in funzione della comunione, della condivisione del pane. Ancora più chiaramente: la comunione dei fedeli è la conclusione normale di ogni celebrazione eucaristica. Per questo il pane viene consacrato al momento e poi subito condiviso. L’eccezionalità di questa messa si rivela anche da altri piccoli particolari che meritano di essere sottolineati.

Il colore dei paramenti è quello pasquale, cioè il bianco, e si canta solennemente anche il Gloria. Anzi, durante il canto di questo inno si suonano a distesa le campane, simboli di vita e di risurrezione, a ricordare l’imminente Pasqua. Poi le campane verranno legate e taceranno fino alla Veglia Pasquale, sostituite (dove questa tradizione si è mantenuta) in segno di lutto da crotali o nacchere di legno.

Terminato il canto non si suoneranno più fino alla Veglia pasquale che porta a compimento ciò che in questa messa è annunciato.

Questo silenzio delle campane, unito alla norma che non prevede l’uso di strumenti musicali durante il Triduo fino alla messa della Veglia, se non per sostenere discretamente il canto, esprime molto bene il silenzio dell’uomo di fronte al mistero della croce.

3) La lavanda dei piedi

Caratteristico della liturgia del Giovedì santo, è il racconto di Giovanni (13,1-15) della lavanda dei piedi, che nel suo Vangelo sostituisce il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia.

Giovanni ci fa capire che forse, già verso la fine del primo secolo, c’era il pericolo che per alcuni cristiani la messa si riducesse a una semplice cerimonia religiosa e così ha preferito riportare l’umile gesto di Gesù per ricordare che il frutto dell’Eucaristia è la comunione fraterna e il servizio reciproco. Dove non ci sono questi segni di carità, non si celebra veramente la cena del Signore: «Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti, quando siete a tavola, comincia a prendere il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco» (1 Cor 11 ,20-21). È per non dimenticare questo messaggio essenziale dell’Eucaristia che nel secolo VII si unisce alla celebrazione del Giovedì santo la lavanda dei piedi.

E’ significativo ricordare che nei primi secoli troviamo la lavanda dei piedi nell’ambito del rito battesimale: ai neo battezzati venivano lavati i piedi prima che si accostassero al banchetto eucaristico affinché non dimenticassero che essere cristiani significa soprattutto servire, sull’esempio di Gesù.

La liturgia romana ha inserito la lavanda dei piedi nella cornice del Giovedì Santo solo nel secondo millennio, collocandola dapprima dopo il rito dopo i Vespri.

Il Messale di Pio V, stabilisce che essa venga celebrata fuori della Messa nel corso del pomeriggio. Da notare che si tratta di un gesto compiuto solo tra i membri del clero.

Con la riforma della Settimana santa attuata da Pio XII nel 1955, la lavanda dei piedi viene collocata dopo l’omelia della Messa in cena Domini. La lavanda dei piedi si fa a “duodecim viros selectos”. Quindi non è più un gesto solo clericale e il riferimento è a “dodici uomini”.

Questa indicazione viene corretta dal Messale Romano di Paolo VI, che non fa più riferimento al numero dodici, ma parla solo di “viri selecti”. Le antifone che accompagnano il gesto della lavanda dei piedi esaltano il grande tema della carità con testi presi da san Giovanni e dal cap. 13 della prima Lettera ai Corinzi (inno alla carità), e il rito si chiude, all’inizio dell’offertorio, con l’antico inno Ubi caritas et amor (nel Messale di Paolo VI trasformato felicemente in: Ubi caritas est vera). La lavanda dei piedi deve pertanto aiutare a comprendere e vivere meglio il grande e fondamentale precetto della carità fraterna che riguarda tutti i battezzati uomini e donne.

«La lavanda dei piedi, che per tradizione viene fatta in questo giorno ad alcuni uomini scelti, sta a significare il servizio e la carità di Cristo, che venne non per essere servito, ma per servire. È bene che questa tradizione venga conservata e spiegata nel suo significato proprio» (FP 51).

Due anni fa la Congregazione del Culto (con Decreto datato 6 gennaio 2016) ha pubblicato una correzione alle norme che stabiliscono lo svolgimento della lavanda dei piedi: la frase «Gli uomini prescelti vengono accompagnati dai ministri…», è stata variata nel modo seguente: «I prescelti tra il popolo di Dio vengono accompagnati dai ministri…». In questo modo i pastori possono «scegliere un gruppetto di fedeli che rappresenti la varietà e lunità di ogni porzione del popolo di Dio. Tale gruppetto può constare di uomini e donne, e convenientemente di giovani e anziani, sani e malati, chierici, consacrati, laici».

Se il Papa ha voluto questo cambiamento, possiamo dire che si tratta di uno sviluppo in qualche modo logico del rito, avendo presente:

1) che dal Vaticano II in poi, il magistero della Chiesa ha messo in rilievo con forza la parità di diritti e doveri tra uomo e donna (Gaudium et spes 9; Evangelii gaudium 103-104);

2) avendo presente inoltre che non si tratta più di un rito compiuto tra i membri del clero.

A questo proposito basta ricordare per quanti anni, anche dopo il Vaticano II, è stato proibito alle ragazze di fare il chierichetto. Divieto che è tolto interpretando il can. 230, § 2 del Codice di Diritto Canonico, che recita: “I laici possono assolvere per incarico temporaneo la funzione di lettore nelle azioni liturgiche; così pure tutti i laici possono esercitare le funzioni di commentatore, cantore o altre ancora a norma del diritto”. Quando si parla di “laici” si parla naturalmente di uomini e donne. Del resto più volte, nei suoi interventi, papa Francesco ha chiesto maggiore spazio per le donne nella Chiesa (cf. Evangelii gaudium 103-104)

4. Riposizione del Santissimo Sacramento

La liturgia eucaristica prosegue come in tutte le altre messe, fino alla conclusione che è invece del tutto insolita. Dopo l’ultima orazione, l’Eucaristia viene portata in processione al luogo della riposizione.

L’Eucaristia viene chiusa nel tabernacolo o in altra custodia e tutti sostano per qualche istante in silenziosa adorazione. A questo punto l’assemblea si scioglie senza alcun esplicito congedo.

È come se la comunità cristiana fosse, per così dire, tenuta «in reperibilità », cioè in permanente stato di convocazione per partecipare alle più importanti celebrazioni dell’anno liturgico, fino al termine della Veglia pasquale, quando il congedo sarà veramente solenne, accompagnato dall’alleluia.

«Il tabernacolo o custodia non deve avere la forma di un sepolcro. La cappella della riposizione viene allestita non per rappresentare la sepoltura del Signore, ma per custodire il pane eucaristico per la comunione che verrà distribuita il venerdì nella passione del Signore» (FP 55).

Il Giovedì santo è dedicato a sostare in adorazione non presso il sepolcro ma davanti al Cristo presente e vivo nell’Eucaristia, che è stata istituita non tanto per essere ammirata ma per essere mangiata, per diventare cibo, sostentamento nel nostro esodo, e per trasformare anche noi in un dono per i fratelli.

 

§§§§§§§§§§

 Questa è la notte della cena, la notte del tradimento e dell’arresto. E noi in questa sera guardiamo da vicino il gesto che Gesù ci ha chiesto di ripetere in memoria sua: l’Eucaristia.

Capita sempre più spesso di sentir dire che la messa è noiosa, distante ed estranea alla vita.

“Perché bisogna andare a messa?” Quale genitore che abbia un figlio adolescente o giovane non si è sentito porre questa domanda?

Il problema non è tanto di andare a messa: il problema è nutrirci dell’eucaristia, vivere dell’Eucaristia. Perché la chiesa vive dell’Eucaristia.

La questione non è tanto andare a messa, ma ‘frequentare’ Cristo risorto. Con quanta cura i giovani, il sabato sera, si preparano per uscire con gli amici, per frequentare gli amici per qualche ora?

Partecipare alla messa è frequentare insieme Cristo risorto. O, se vogliamo, è Cristo risorto desideroso di frequentare noi: “ho desiderato ardentemente di mangiare questa pasqua con voi”.

Noi facciamo fatica a cogliere l’importanza dell’Eucaristia perché spesso la interpretiamo come un semplice ricordo, un rivivere l’ultima cena, ponendo così l’accento sul passato.

In realtà l’Eucaristia è un evento del presente: è l’irrompere in mezzo a noi del Cristo risorto; è il Risorto che, come con i discepoli di Emmaus, si pone al nostro fianco lungo la nostra storia, si fa nostro commensale.

L’Eucaristia è la preziosa eredità, ciò che di più caro la Chiesa ha ricevuto da Gesù e che custodisce gelosamente.

L’Eucaristia è la prova, il segno che Gesù Cristo ci lascia del suo amore. Può essere compresa solo a partire dalla sua intenzione di restare con noi “tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt. 28,29).

Ma Gesù non viene a stabilire soltanto una relazione personale con ciascuno di noi: ci incontra ‘insieme’ perché ci costituisce come Chiesa, ci fa crescere come chiesa: l’Eucaristia fa la chiesa. Cos’è, infatti, la chiesa? Il popolo di tutti coloro che accolgono l’invito di Gesù ‘fate questo in memoria di me’, ricordando che il ‘fate’ non riguarda tanto un rito, quanto il fare della nostra vita quello che Gesù ha fatto con la sua: un dono di comunione. La chiesa è la comunità degli uomini e delle donne che accolgono e obbediscono alla comunione, e si fanno pane spezzato e vino versato per il mondo; il popolo di coloro che lavano i piedi al mondo: ‘come ho fatto io così fate anche voi’.

Nell’Eucaristia Cristo si comunica a noi come cibo: come pane e vino. Se ci pensiamo bene né il pane né il vino sono prodotti naturali, cioè non si trovano in natura come li consumiamo (a differenza dell’acqua o dei frutti), ma richiedono il lavoro dell’uomo, che trasforma il grano in pane e l’uva in vino. Il chicco di frumento, gettato nella terra, marcisce per poi germogliare e crescere; così il vino ha origine dall’uva posta sotto il torchio e pressata, come il grano sotto la macina del mulino, e lasciata fermentare. Due storie che mostrano la vita che fiorisce dalla morte.

Anche noi ricevendo il corpo e sangue di Cristo partecipiamo alla vita che sgorga dal sacrificio di Cristo: partecipiamo, prendiamo parte. Perché anche la nostra vita sboccerà nel momento che accetta di farsi dono, porterà frutto nel momento in cui accetta di morire.

Il cristiano non può essere diverso da Cristo: siamo assimilati a lui, così come avviene quando mangiamo qualcosa: assimiliamo il cibo. Attraverso la partecipazione all’Eucaristia noi viviamo una progressiva compenetrazione con lui, con i suoi sentimenti. “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” ci raccomanderà s. Paolo nella seconda lettura di questa sera del giovedì santo.

Ecco il perché dell’Eucaristia. L’eucaristia fa, dà forma al cristiano, così come fa, dà forma alla comunità cristiana. L’Eucaristia fa ciò che il Signore vuole che siamo: capaci di vivere la logica di Dio.

Con la celebrazione del giovedì santo entriamo nei tre giorni santi della Pasqua: andiamo a fare Pasqua con lui. Gesù, sulla croce, si è dato tutto a tutti; anche noi faremo pasqua se ci lasceremo progressivamente assimilare al Signore per vivere la nostra vita come dono, come servizio.

Allora l’Eucaristia non è più un precetto da osservare ma è il pane, l’alimento essenziale del cristiano e della chiesa.

 

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